Dalle Ca’ ai paesi alle Comunità
Attorno a molte Ca’ sono sorti piccoli centri abitati, dove risiedeva chi era impiegato a servizio della villa nei lavori agricoli o nelle bonifiche. In alcune situazioni, questi piccoli centri sono evoluti in veri e propri paesi con tutte quelle attività tipiche di insediamenti più complessi: dal terziario – panificio, macelleria, rivendita di formaggi, osteria, farmacia, calzolaio, merceria, tintoria – all’industriale – fornaci per la produzione di laterizi.
Se può sembrare paradossale parlare di urbanizzazione in un territorio così desolato quale era il Basso Polesine nei tre secoli di penetrazione veneziana, proprio la presenza del patriziato lagunare ha reso possibile la costruzione di agglomerati urbani. I nobili, dopo un primo impegno “attivo” nell’amministrazione del fondo, segnato dalla conduzione in economia dello stesso unitamente a un’intensa opera di bonifica, tendono nei primi anni del XVIII secolo verso un’involuzione che li porta ad interessarsi esclusivamente all’utile ricavabile dalla locazione di queste terre, delegandone quindi la conduzione ad altri. Coloro che tra il 1657 e i primi anni del Settecento si aggiudicarono le prese costituenti le alluvioni novissime si trovarono ad affrontare tutta la drammaticità della lotta contro la natura, già sperimentata dalle famiglie patrizie veneziane nei due secoli passati, con analoghe opere di difesa dalle acque da realizzare, la stessa necessità di numerosa manodopera sia per le bonifiche che per i lavori agricoli.
Gli insediamenti di questi lavoratori erano per lo più costituiti da miseri tuguri, costruiti in “…creta, paglia e canne, senza pavimento né soffitto [ove sovente] la stanza da letto era anche cucina e qualche volta stalla; [oppure in mattoni] senza fondamenta, a piano di campagna [e sprovvisti anche] di camini [obbligando] a lasciare la porta aperta anche d’inverno …” (G. Scarpa, 1972) che gravitavano attorno al complesso rurale – costituito dalla casa dominicale e dagli annessi rustici, e spesso racchiuso da una cinta muraria-. Tuguri che non potevano certo sopravvivere al passare dei secoli, rendendo ardua oggi l’impresa di delineare la forma – se mai ve ne fosse una – di questi agglomerati colonici, il cui pauperismo per contro veniva sovente propugnato nei trattati di agricoltura. Giovan Battista Barbo, nel suo Le delizie et frutti dell’agricoltura e della villa pubblicato a Venezia nel 1634 raccomanda di costruire le dimore dei braccianti “… basse et oscure, che non le godi se non di notte, ne sappia habitarle volentieri, ma se ne stij alla campagna, al lavoro, alle fatiche, non al coperto, al riposo alla quiete, all’ombra … ” (A. Ventura, 1969)
Certo è che non dovettero passare molte generazioni perché questi embrioni di villaggi crescessero. Donada contava nell’ultimo quarto del XVII secolo 250 anime da comunione e Ca’ Correggio ospitava su propri terreni 150 coloni già negli anni cinquanta dello stesso secolo, iniziando ad avere altre necessità quali ad esempio il conforto religioso. I contadini, quindi, iniziarono ad esercitare una certa pressione affinché il patrizio rispondesse a quest’esigenza universalmente riconosciuta come di primaria importanza. In tale contesto, ma non solo, debbono essere lette le sette richieste di juspatronato inoltrate rispettivamente dai Contarini (1665), Cappello (1666), Correggio (1667), Donà (1680), Venier (1682), Farsetti (1697) e Pisani (1707) al Vicario di Chioggia. Il passaggio dalle Ca’ ai Paesi conosce, a seconda delle aree e dei loro proprietari, diverse modalità di realizzazione e comunque si esprime nella formazione di tante località che seppur numerose, quasi quanto le case padronali, restano nella maggior parte piccoli agglomerati, che solo in alcune situazioni raggiungono la consistenza di veri e propri paesi.